Solito treno, solito ritardino, non eccessivo ma perfetto per farmi sfuggire di un niente la successiva coincidenza. Talmente al limite da indurmi a credere di potercela fare e servirmi così dell’ormai collaudata modalità “passo meneghino” un genere di passo svelto, frenetico, ben lontano dalla mia natura che invece è notoriamente lenta e svagata. Col risultato di scomodare il muscolo involontario cardiaco a pompare più sangue in giro per il corpo, annesso stress provocato al comparto visivo adibito a ricercare le traiettorie migliori per farsi largo fra la disomogenea folla in disordinato flusso e conseguente annientamento del lume della ragione, cestinato a favore di randagi istinti, che ingenerosamente sentenziano a male parole – sintetizzabili in “fate largo razza di idioti” – tutti quei tizi che si frappongono tra me e il traguardo. Su tutti, coloro i quali mostrano lentezza, incertezza, esitazione, flemma, distrazione, fin anche semplice errata postura… insomma, gente normalissima, dei potenziali “me stesso” dei restanti 364 giorni dell’anno.
Tutto sto trambusto per ritrovarmi a fissare quel binario, tristemente vuoto, che la metro per Gessate è già all’orizzonte, perduta per una manciata di secondi e costretto ad attendere, nervoso e sconfitto, il successivo treno.
Che poi passa dodici minuti dopo. Mica settantatre. Dodici.
Il tempo è denaro. Ma sembra che le Ferrovie dello stato abbiano una vaga idea del denaro quando non si tratta dei loro cari biglietti. 😆
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