“Cristo…!” esclama sbuffando all’improvviso la donna stronza, attirando la mia e l’altrui attenzione. Nel voltarmi, noto curiosamente sopra di lei campeggiare un quadro con il Cristo misericordioso che incrociando il mio sguardo fa uso della sua celestiale capacità comunicativa per un piccolo sfogo:
“Ti rendi conto Daniele, cosa mi tocca sopportare ogni giorno?! ”
“Che poi anche su questo ci sarebbe da discutere…” – gli rispondo io per via telepatica, che tanto dovrebbe sentirmi per quel che so – “…Intendo dire, tu sei il figlio di Dio, e quindi altrettanto Divino, dunque… in che senso sopportare ogni giorno? Fammi capire, stai ad ascoltare tutte le cose che vengon dette? Davvero? Ma… leggi anche i social?”
Al ché, Lui ha continuato a fissarmi con quello stesso sguardo lì, ma senza più dirmi niente.
Del resto, non è forse il silenzio stesso un modo eloquente di rispondere?
Ma facciamo un passo indietro …
Mattinata grigia, uggiosa di fine febbraio. È arrivato il momento – troppe volte post-posto – di far visita al medico di famiglia, che di nome fa Mirella, quindi donna, quindi medica di famiglia.
Perchè in questa società qui in cui viviamo – non mi è ancora del tutto chiaro il motivo, ma so che esiste – taluni medicinali, anche ordinari, non te li danno in farmacia se non ti fai fare la ricetta dal medico.
Quel dì, la medica errante non riceveva come di consueto a Mondavio, ma in un paese un po’ più fuori mano, che frequento di rado e che mi ha sempre suscitato un misto tra mestizia e nostalgia, forse perchè sventrato dalla strada provinciale che in quel tratto diviene stretto passaggio tra le scalcinate abitazioni.
Forte della mezzora di anticipo rispetto all’orario di inizio visite, mi concedo un caffè al Bar Centrale, locale che da fuori non incanta e che all’interno… è pure peggio. Per intenderci, un bar rimasto intatto dagli anni 80 ad oggi, che di per sé potrebbe essere un pregio se non fossero stati aggiunti sparuti elementi di modernità qua e là, senza visione d’insieme, senza amore, luci calde e fredde a casaccio, tv con audio di pessima qualità mal appesa al muro che passa video musicali, angolo tabacchi con schermo di controllo su sala slot machine sita sul retro del locale.
Non esattamente il bar che spero di incontrare quando capito in un paese nuovo, per quanto il caffè non fosse male a onor del vero.
L’ambulatorio è a tre minuti di cammino, che percorro sotto una crescente pioggia, senza ombrello ovviamente, per una questione di pigrizia organizzativa.
Raggiungo la meta con un buon anticipo di dieci minuti, credendo sia sufficiente a mettermi in una posizione privilegiata sulla concorrenza, ma la realtà è che quando i tuoi competitor sono gli anziani pensionati, se ambisci a presentarti al via tra le prime file, dovresti arrivare alle qualifiche con ben altro anticipo.
La sala d’attesa è gremita. E sono tutti lì per Mirella.
Che poi … arrivare troppo presto, non equivale a passare del tempo in coda? – mi sono domandato con un velo di saccenza, subito confutata da un paio di dati.
Il primo dato è semplice questione di logica aritmetica. Se arrivi con qualchessia anticipo, sin dall’inizio hai certezza sui tempi del tuo impegno. Sai quando arrivi, e sai verosimilmente quando hai fatto. Che non è poca cosa.
Il secondo dato è ben più astratto. È qualcosa di indefinito e non quantificabile. È una questione che coinvolge empiricamente la sfera morale.
Arrivare per primo ti da il potere sugli altri che man mano si aggiungono alla coda.
Nel micro cosmo di quella mattina, di quel luogo, tu sei il Re.
Tu sarai quello che si alzerà per primo quando quella, la musa da tutti attesa, arriverà.
E quando dal tuo trono vedrai sommarsi alla coda coloro che si credevano primi, proverai ogni volta un sussulto di piacere. Un figurativo: “Tié, Suca ! ” – per ognuno che, entrando, realizza che sarà una mattinata più lunga del previsto.
E pensandoci, a cascata, anche il secondo, poi il terzo e così via provano qualcosa di simile quando vedono sommarsi dopo di loro un certo numero di teste.
Ho pensato a tutto questo perchè è successo anche a me, dodicesimo in griglia, quando è entrato il tredicesimo. “Eccolo” – ho pensato – “il nuovo ultimo; che tonto“.
Aumenta in qualche modo il valore della propria posizione acquisita e cresce contestualmente una strana percezione di superiorità nei confronti dei poveracci arrivati dopo.
Sapere che c’è chi sta peggio è confortante. L’essere umano è – anche – questa roba qui.
Presa coscienza che la mattinata è da ritenersi ipotecata pur essendo bisognoso soltanto di due misere ricette, domando ai presenti se per caso la dottoressa non abbia un assistente o se tra un paziente e l’altro compili delle ricette (cosa che quando abitavo nell’operoso nord era prassi), per evitare se non altro accalcamenti insensati, direi anacronistici al giorno d’oggi, annus domini MMXXV.
E prontamente mi risponde lei, l’unica non anziana, una donna sui 36 anni che con un indecifrabile mix di acidità e sarcasmo, mette subito in chiaro che lei certo non cederà il suo posto, perché non è giornata, e parla anche a nome di altri, in un breve ma intenso monologo che chiude auto definendosi una donna stronza: “Ah mi spiace ma io sono una donna stronza” – mi ha detto.
Lei.
A me.
Ho provato – seraficamente – a spiegare che non era mia intenzione scavalcare la fila, che venivo in pace per capire l’iter di quel luogo a me ancora ignoto, ben attento a non citare il mio passato nell’operoso nord, per non incorrere in questioni campanilistiche altamente travisabili, che in un attimo ti fanno passare per quello che “è venuto qui a fare lo smargiasso che ci insegna a vivere a noi, lui, il nordico polentone, regione Lombardia, Formigoni corrotto, privatizzazioni sulla sanità, paziente zero del covid, zone rosse, vaccini, tachipirina e vigile attesa, vergogna” – un calderone di informazioni sfuocate, sentite e mal riportate da un impeto di irrisolte frustrazioni del recente passato. Per carità!
Ma non c’è stato verso di spiegarmi, così, mentre nella sala crescevano i discorsi sulla precarietà organizzativa della sanità con la donna stronza a condurre il dibattito, io – un po’ frastornato – ho issato figurativamente bandiera bianca, smettendo di ascoltare quelle argomentazioni sommarie che mi provocano mortal noia, preferendo riprendere la bozza di un pezzo che sto scrivendo, che nelle ultime settimane la voglia di scrivere è sbocciata come non succedeva da anni e ritengo che scrivere sia un virtuoso modo di spendere il tempo.
Intanto i minuti passano. Scoccano le 10 – orario di inizio visite – e della dottoressa nessuna traccia. Quando i minuti di ritardo diventano quindici, ecco uscire dalla bocca della trentaseienne quel “Cristo” con io che mi volto e vedo il quadro del Cristo misericordioso appeso sopra di lei che incrociando il mio sguardo, appena prima del piccolo sfogo, fa uso della sua celestiale capacità comunicativa per dirmi: “E su questo non scrivi nulla? In verità in verità ti dico, è giunto il tempo: lascia perdere la bozza e crea una nuova nota“.
E cosí io faccio, dal divino ispirato, comincio a far fluire parole che iniziano cosi:
“Cristo…!” esclama sbuffando all’improvviso la donna stronza, attirando la mia e l’altrui attenzione (…)
In una mattinata grigia e uggiosa, così dimenticabile e priva di qualsivoglia appeal, interamente spesa nella sala d’attesa di un triste ambulatorio di periferia attendendo un paio d’ore il mio turno per due ricette poi compilate in una quarantina di secondi… è bastato incontrare Lui, l’Altissimo Gesù Cristo, perché tutto assumesse una nuova luce. È bastato un quadro per comunicare la sua presenza ben oltre la fede, ben oltre le credenze popolari. Egli è il verbo, Egli è il mezzo, Egli è il fine. Egli è, punto.
Kyrie Eleison Padre, Kyrie Eleison.