In attesa di ricominciare a prendere a calci una sfera, provvedo da me a mantenermi allenato. Che star fermo tutti sti mesi si rischia poi di far figure di una certa imbarazzanza, che non è mai bello.
Volevo sostanzialmente le attenzioni di una sola squadra, a cui – evidentemente sbagliando – credevo di poter essere particolarmente utile, una categoria inferiore ai miei standard, appena retrocessa e a parole ambiziosa per tornare prontamente nei professionisti. A due passi dalla mia nuova casa, dalla mia nuova vita. E per andarci avrei anche rinunciato a pretendere un compenso particolarmente corposo. Sulla carta un matrimonio vincente per entrambi, congiunzioni astrali auspicabili, i famosi “due destini che si uniscono” cantati dai Tiromancino, che illuminano con rara chiarezza un sentiero ben tracciato.
Ma la vita non è una canzone, e fu così che il Fano Calcio evidentemente non bisognava di un giocatore pur meraviglioso come me, ed ora sta pure facendo un campionato deludente. Che dire; Spiaze. Il giusto.
E quindi ho aspettato invano, rifiutando un po’ di proposte, talune anche golose ma ahimè lontane dalle mie nuove priorità, che risiedono nei pressi dei luoghi teatro della mitologica battaglia del Metauro, quella di Annibale e degli elefanti.
Poco male, perché in questi due mesi ho potuto restare a Varese e godermi pienamente la nascita del mio primo figlio e stare accanto alla mamma, esperienza che se avessi lavorato mi sarei in gran parte perso. E sarebbe stato un peccato.
Ma ora è tempo di trasferirsi nelle Marche, e quindi di tornare a indossare le scarpette, se ve ne fosse ancora occasione.
In questi mesi ho mantenuto un’inedita costanza nel tenermi allenato, cosa che da solo non mi è mai riuscita facile. L’ho fatto a modo mio chiaramente, calcando soprattutto campetti da basket – mia attività preferita in ogni off-season – e terreni erbosi per indossare le calzature del mestiere con le quali accarezzare il pallone e fare circuiti di forza a corpo libero, tenendomi a debita distanza da ogni ambiente legato alle palestre fitness, luoghi dove per qualche ragione la noia mi sbrana e inizio a sbadigliare come un gatto.
Un saluto a tutti i miei preparatori atletici.
E infine sessioni di corsa per strada, tra i saliscendi lombardi e marchigiani, anch’esse alla mia maniera, totalmente prive di un programma specifico, ma con un filo logico inespresso che alla fine a ben vedere trova una sua ragion d’essere. Che tradotto significa che corro a caso, questa è la verità.
In un’epoca in cui tutto è mappato, misurato, calcolato nei minimi dettagli, gps, smartwatch, frequenza cardiaca… io scelgo di rimanere empirico. Vestito un po’ da cestista e un po’ da calciatore, eccomi partire a freddo, senza riscaldamento che tanto mi scaldo correndo. Concedo giusto i primi cinque minuti alla “corsetta senza scopo di lucro”, un po di torsioni del busto e un accenno di alternato scorrimento laterale giusto per sgranchirmi e far capire agli adduttori che siamo partiti, che c’è da star svegli all’occorrenza. Nessun gps, giusto un iPhone, che mi porto scomodamente in tasca, utile a capire grossomodo da quanto tempo sto correndo e via, verso un percorso più o meno pensato ma poi sempre improvvisato a seconda delle percezioni del momento. Sono il peggio del peggio per gente fissata come i personal trainer, lo so.
Ancora un saluto a tutti i miei preparatori atletici.
La verità è che quel ruolo mi annoia. Mi annoia la gente che ama troppo i grafici, la scienza al microscopio. Tutto perfezionismo fondato, di cui non metto in dubbio nulla, ma utilissimo se dovessi fare gare podistiche, in cui lo spazio/tempo è Dio e come tale va trattato, in religiosa adorazione, senza se e senza ma. Mistero della fede.
Ma io non ho mire podistiche, ho mire calcistiche (alla peggio cestistiche) e in questo contesto il mio obiettivo, quando corro, è mantenere in soglia il fisico, provare fatica, senza sapere quanto manchi esattamente alla fine, andare avanti a braccio, accelerare fino a quel lampione, recuperare fino a quell’albero, sprintare in salita, recuperare qualche metro fino a quel tombino e di nuovo sprintare, sentendo l’acido lattico irrorarsi per tutte le fibre del quadricipite e non per questo mollare.. e imparare che quando sembri arrivato al limite, se vai avanti c’è ancora del margine, ancora metri di salita che sei in grado di affrontare, e se non molli altri ancora. Chi l’avrebbe mai detto? Molti che hanno studiato questa disciplina immagino, quindi anche i miei preparatori atletici, che saluto.
Un lavoro mentale tra sè e sè, senza parametri se non quelli percepiti, cosa serve di più? Mantenere la voglia di soffrire è quel che serve mentre sei da solo, è un patto con te stesso, che se a breve si ricomincia, bisogna farsi trovare pronti, in regime. Che il calcio è condizione atletica, certo, ma ancor più è questione morale, creativa, emozionale. E la scienza è invece soltanto fredda matematica applicata, che col calcio ha un’incidenza relativa.
Non prendetemi come esempio, sia chiaro; non voglio esserlo. Non è così che si ottengono i migliori risultati… la mia è soltanto una personale verità, distorta e adattata al mio incostante modo d’essere, per scavalcare la noia che mi assale in occasione di attività sportive prive del pallone, infantile forse, ma chissenefrega, è semplicemente come sono io, è un dato di fatto.
Una cosa però mi sento di consigliarla a chi pratica questo sport. Questa propensione alla cura minuziosa del proprio corpo, perfetto al grammo, la schematicità sull’alimentazione, il picco glicemico, le schede da seguire in palestra, le ripetute, il gps, la soglia aerobica, gli integratori giusti nella giusta misura… Tutto perfetto, da manuale, è il meglio possibile, non mollatelo, mai! Ma… c’è un ma.
Quando nonostante tutto ciò ancora non vi sentiste “in forma” o vi mancasse qualcosa, ricordatevi che più di ogni altro sport il calcio è libertà di pensiero, creatività, freschezza mentale. Buttate via il gps, mangiatevi una pizza, un kebab, bevetevi una birra in più in compagnia; allontanate la matematica e ascoltate quello che vi dice la testa. Che le percezioni sono la verità più sincera che esista, e a volte “scavalcano” la scienza.
“Fa più bene mentalmente che male fisicamente” – sono solito dire.
Liberate la mente, lo sport è creatività e la creatività è improvvisazione, è caos, la scienza invece è ordine, e l’ordine a volte è deleterio, opprimente.
E noioso.